Andrebbe licenziato l’insegnante che nello svolgere una interrogazione con la didattica a distanza ha imposto all’alunno di bendarsi affinchè non potesse sbirciare le risposte in spazi e materiali non inquadrati! Andrebbe licenziato se risultasse, e spero proprio di no, tremendamente vero.

Come si fa a non capire che questo non è il tempo dell’istruzione e della valutazione, bensì è il tempo dell’educazione. Fa paura questa parola e può essere anche contestata sicuramente da molti insegnanti. A costoro propongo di riflettere sull’accorato e drammatico messaggio, conosciuto per fortuna da molti e certamente non da tutti, che un preside all’inizio dell’anno scolastico rivolgeva ai docenti della sua scuola:

Caro professore,
sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università.
Diffido – quindi – dell’istruzione.
La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.

(Anniek Cojean, Les memoirès de la shoah, in Le Monde del 29 aprile 1995)

Se proprio non si vuole accogliere la parola educazione, perché spesso associata a una visione cattolica, e si preferisce il termine formazione, bene allora è tempo di promuovere la formazione dei nostri alunni. Ma se vogliamo uscire dalle diatribe e dalle contrapposizioni non possiamo non schierarci con tutte le nostre forze con Edgar Morin e difendere in questo momento un insegnamento educativo. Riflettiamo anche sulle sue parole:

A dire il vero la parola ‘insegnamento’ non mi basta, ma la parola ‘educazione’ comporta un troppo e una mancanza. In questo libro farò lo slalom tra i due termini avendo in mente un insegnamento educativo.
La missione di questo insegnamento è di trasmettere non del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere; essa è nello stesso tempo una maniera di pensare in modo aperto e libero.
Kleist ha proprio ragione: ‘Il sapere non ci rende migliori né più felici’. Ma l’educazione può aiutare a diventare migliori e, se non più felici, ci insegna ad accettare la parte prosaica e a vivere la parte poetica delle nostre vite”

(Edgar Morin, La testa ben fatta,Cortina editore, Milano, 2000)

Gli scettici chiederebbero sicuramente: e come si può svolgere un insegnamento educativo? Prima di tutto è necessario assumere la consapevolezza che non si insegnano le discipline (italiano, matematica, storia, ecc.), ma si insegna con le discipline. Questo hanno fatto i grandi maestri del passato e questo fanno i bravi insegnanti di oggi che per fortuna esistono e in tanti.

Insegnare con le discipline significa recuperare l’origine dei saperi. Gli uomini hanno conquistato le conoscenze attraverso la ricerca delle risposte ai problemi che la vita materiale, sociale, spirituale, poneva loro. Problemi e risposte hanno contribuito a interpretare, a dare senso a noi stessi e al mondo in cui viviamo. Problemi e risposte, racchiuse nelle discipline che insegniamo, hanno un grande valore ermeneutico della realtà. Insegnare con le discipline allora significa fornire agli alunni strumenti interpretativi del reale.

È facile a questo punto avanzare una obiezione: ma questi strumenti non sono astratti, sono pur sempre i saperi accumulati nei secoli. È vero, ma ci sono saperi che hanno un grande potere ermeneutico ed altri che incidono meno nell’attribuzione di senso. Ed ecco l’importanza di saper selezionare in questo momento i saperi che hanno forte “pregnanza ermeneutica” in modo da aiutare gli alunni a saper interpretare questo momento drammatico per l’umanità e spesso per loro stessi.

Stanno emergendo in questi giorni i problemi che molti alunni vivono perché anche loro reclusi tra le mura domestiche: la mancanza del gruppo dei pari che per loro è fondamentale, la carenza di strumenti digitali per potersi connettere, la perdita di persone care, il tormento dei genitori che hanno perso il lavoro, le preoccupazioni e persino l’affanno dei genitori che sono chiamati a lavorare per assicurare a noi i servizi essenziali e la nostra stessa sopravvivenza. Si possono aggiungere tanti altri fattori che ciascuno di noi conosce. Il mondo interiore dei bambini, degli adolescenti e dei giovani, già spesso tormentato nelle aule scolastiche quando si vive un tempo ordinario, oggi è in subbuglio anche a causa dei media che parlano di guerra, di contagi che aumentano, di servizio sanitario al collasso, di morti e di bare allineate che non trovano collocazione nei cimiteri! Non è possibile immaginare che loro siano insensibili a questo scenario, anche quando, di fronte a un telegiornale, sembrano distratti e assorti nel gioco. E noi pensiamo di placare questo mondo trasportando nella didattica a distanza quella didattica tradizionale di aula, fatta di spiegazioni, di esercizi, di interrogazioni e di voti?

Il docente incredulo pone un’altra domanda: allora non devo proporre alcun contenuto di apprendimento, non devo spiegare più nulla, non devo valutare? No. Non è questa la soluzione. I contenuti sono strumenti di formazione e di educazione. Lo diceva bene Aldo Agazzi: non c’è vera educazione che non passi attraverso l’istruzione, come non c’è vera istruzione che non porti all’educazione! In questo momento bisogna avere l’accortezza di assicurare alcuni principi educativi e didattici che tento di riassumere:

1.Attuare la didattica della vicinanza come ben delineata da Tuttoscuola nel numero di marzo 2020:
I docenti provino a stare vicini ai propri alunni e ai loro genitori in un rapporto personale che in qualche momento lasci da parte la didattica, i compiti e le lezioni on line. Il ruolo educativo è fatto anche di relazioni interpersonali in presa diretta. La didattica a distanza ha bisogno di essere integrata da una speciale ‘didattica’ di vicinanza, dove le parole, i volti, i sorrisi diventano veri e concreti, in audio e in video, in una relazione empatica che corrobora e arricchisce la didattica a distanza. Provare per credere: non costa niente e può fare bene alla salute mentale e all’umore di tutti, con un ingrediente che può rendere gradevole ed efficace, più umana, la didattica a distanza.

2. Realizzare un insegnamento problematizzante. Proponiamo prima di tutto quegli apprendimenti, come già detto, che hanno maggiore pregnanza ermeneutica, proponiamo anche apprendimenti puri (ammesso che ce ne siano) e abilitativi o funzionali, ma in forma problematica. Poniamo l’enigma, come sostiene Philippe Meirieu ( Philippe Meirieu, Il piacere di apprendere,Lisciani, Teramo, 2016),cerchiamo di suscitare in loro curiosità attraverso le domande, facciamo in modo che siano loro a ricercare le risposte magari anche quando si spengono video, tablet e smartpfone, invitiamo a fare letture e ricerche fuori dai libri scolastici, attiviamo in conclusione la didattica delle competenze, assegnando loro compiti di realtà, e non la didattica degli apprendimenti, secondo lo schema classico della lezione frontale.

3. Evitare assolutamente di porsi di fronte agli alunni come “esattori” del sapere, chiedendo loro la “restituzione dell’appreso”, che come sostiene Vandevelde “non è testimonianza né di intelligenza, né di aver compreso”. La valutazione è inevitabile nelle azioni umane come nell’apprendimento, ma che sia prima di tutto una valutazione formativa e proattiva. Una valutazione che fornisca agli alunni informazioni sul suo processo di apprendimento, che indichi gli aspetti da migliorare e le modalità per ottenere il miglioramento, che motivi l’alunno ad apprendere attraverso l’apprezzamento dei progressi effettuati, anche se piccoli, che incoraggi l’autovalutazione e che, infine, si trasformi pure, nella scuola secondaria, in una valutazione condivisa con lo studente.

4. Abbandonare la preoccupazione di non finire il programma. Non è un dramma se non si finisce il programma. Mi sono trovato a gestire, come direttore generale, il terremoto di L’Aquila del 2009 che ha tante analogie con la situazione attuale. Scuole e abitazioni distrutte, aziende e fabbriche scomparse e chiuse, perdita del lavoro, perdita dei propri cari e dei compagni di scuola, docenti e alunni dispersi, 6.500 alunni nelle tendopoli, 4.500 sparsi nelle seconde case lungo la costa adriatica, altri rifugiati da nonni o parenti in altre regioni d’Italia, Ufficio scolastico regionale non agibile, ecc. Ai miei occhi si presentava l’immagine di una scuola dispersa, sgretolata come le case, smarrita e dolorante. Non ci siamo arresi o rassegnati, abbiamo raggiunto gli alunni sotto le tende, abbiamo fatto sentire loro la vicinanza della scuola: un dirigente presente in ogni tendopoli da mattina a sera, docenti accorsi anche da altre province nei loro giorni liberi per svolgere sotto le tende la “didattica della vicinanza”, per aiutare gli alunni di ogni ordine e grado a interpretare quel drammatico momento, ad attribuire senso agli eventi, ad avere fiducia nel ritorno del tempo ordinario. Il programma non è stato svolto! Gli alunni sono stati tutti ammessi alla classe successiva ed è stato svolto solo l’esame di maturità con una commissione ristretta. L’anno dopo, da settembre a dicembre, abbiamo svolto attività di recupero e consolidamento dei contenuti tralasciati e il tempo scolastico ha ripreso il suo corso. Ebbene quella generazione di alunni non ha trovato alcuna difficoltà nella prosecuzione del loro percorso scolastico e annovera adesso specialisti di rispetto in ogni campo oltre a persone ricche umanamente! I contenuti si recuperano e quanti di essi non sono essenziali!

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